Rondini
uncinate su carta per bambini.
Segni
che vorrebbero essere saluti, appelli, testamenti, editti di
coraggio, e invece sono solo lettere che compongono parole.
La
parola scritta, quando è letta, è già passata, è già un addio.
Per questo e per molto altro, non bisognerebbe mai invischiarsi in
quel giardino crudele che sono le emozioni altrui, soprattutto se
scritte, strappate a beffardi momenti di smania.
Oggi
sono uscito imprigionato in un vecchio cappotto troppo stretto, che
avrei fatto bene a bruciare o a regalare. La canzone dei Riverside
che avevo in testa non si legava bene al cappotto. E, soprattutto, mi
sono accorto molto presto che non avevo nessuna voglia di guardare
negli occhi le persone. Troppi furti di luce e buio, volontari o
involontari, troppa fantasia tra le maglie della noia che è lì,
come un predatore notturno assonnato, pronta a saltarti addosso con
la sua saliva puzzolente.
Vengono
queste giornate, dove guardarmi negli occhi è un furto e non lo
autorizzo. Sono vecchio abbastanza per avere la freddezza di uccidere
la curiosità mentre si veste per la festa. Soprattutto se riesco a
vedere il mare da qualche parte.
Vento
e sole, tra le code della gente nervosa, accento settentrionale e
superficialità in una comitiva di macchine fotografiche, ma lo sanno
che a volte la chiesa di un uomo può essere un rasoio sulla pelle,
sulla pancia?
O
vogliono dimenticare? O vogliono crepare in una foto da inserire a
futura memoria nel database delle “esperienze”?
La
sconosciuta finisce sul mio cappotto e ci trapassiamo senza
un'emozione.
“Scusa”
“Prego”
Addio
e vaffanculo in uno dei tramonti retrocopertina.
La
chiesa suona le campane. I fedeli accorrono. Funerale.
Io
passo, e con me il vento. Io passo con la mia storia, ma il dolore
distrae tutti e il mio odore non rimane.
Io
passo, con le mie porte viola, con i miei aeroporti deserti, con le
sale d'attesa dove ho lasciato la rabbia sotto stupide riviste, con
le tonnellate di “no grazie” lasciati nelle case di passaggio.
Fendo
il funerale sconosciuto con tutta la scorta di depistaggi di cui
dispongo, ne vado orgoglioso e questo m rende stupido e conforme alle
mie aspettative.
“Se
ti cerco lì ti trovo?”
“Ma
certo”
E
invece no. Non ti sapranno dire niente, quando farai il mio nome.
Al
massimo un “mi sembra” loffio e svogliato. Ci ho lavorato tanto,
su questa cosa. Intasare il mercato dei sogni di alias e demoni
scambiati per uno strambo carnevale.
Mi
piace respirare contro i vetri, quando fa molto freddo. Mi sento
protetto mentre il vetro si appanna. Sto sabotando la mia immagine
restituita e questo mi riempie di vento, come mi piace, come
preferisco.
Il
cappellaio matto, l'uomo nero, mi troverà lo stesso e uno di noi ci
rimarrà secco. Mi eccita essere pronto al confronto, anche al buio.
Anche senza parole, senza eredità morali, senza la visita guidata
tra le lacrime schivate.
Non
si può vivere senza il rischio grossolano della resa dei conti.
Non
si vive bene senza il ricordo di quello che si è sempre desiderato,
arrivare al momento opportuno come un guerriero inzuppato di pioggia,
frainteso nei momenti più brillanti e coccolato nelle fasi in cui il
vuoto sembra decidere per una ragione presentabile.
Mi
piace questo vento che fa correre le persone verso casa e la mia
anima, sempre di più, verso le onde che non permettono troppe foto
ricordo. Collegamenti interrotti per le isole mai apparse.
LdP
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