“I demoni
hanno fede, ma tremano”
Dostoevskij
“Io vedevo
Satana cadere dal cielo come la folgore”
Luca, 10,18
Il vecchio
cammina lentamente, sommerso dall’estate, schiacciato. Almeno, questa è la mia
sensazione. Il suo passo trascinato, pencolante, schiaccia me, che sono dietro
di lui e vorrei tanto avere occhi invisibili.
Il
giornale portava notizie di eventi all’aria aperta. Cineforum estivi al parco.
Concerti di carneadi a picco sul mare. Scenari suggestivi per cantanti liriche,
violoncelliste sexy, inutili gruppi di hip hop regionale.
Ancora non
lo hanno capito, che poi si deve tornare a casa. Comunque si torna a casa,
anche se c’è stata mezza emozione. Decido io quando emozionarmi. Non devo
distrarmi per emozionarmi. Decido io quando essere ghiaccio e quando disastro
di fuoco. Gli spettacoli all’aperto non mi emozionano quasi un cazzo, io sono
per l’anima all’aperto, esposta, temporanea e fragile, ed è così difficile.
Il
castello è scuro. Il principe è indisposto. I cocchieri sono spettri. Gli
specchi sono quelli delle fiabe cattive. I rimorsi sono pus.
Leggo che “la
notte delle librerie” è stata un successo. Quali librerie? Quali cazzo di
librerie? Tutti con la bocca piena di vermi, salviamo i libri, salviamo la
vendita dei libri. Frasi fatte. Raccontare in giro che si vuole salvare
qualcosa o qualcuno funziona sempre, con gli idioti. Non mi preme salvare
alcunché.
Uno che
legge e uno che suona la chitarra, non salva niente. Una stronza che declama
parole sciocche sulla camorra, sui bambini sfortunati, sulle vittime innocenti,
per me può rimanere anche solo una stronza.
Non
sappiamo niente di vero sulle vite della gente. Solo pettegolezzi.
Erosione
interna. Piaghe larghe come tavolate di vecchi amici. È perfettamente inutile
cercare luoghi all’aperto. Quel vecchio proverbio dice che ognuno ha un suo
diavolo sull’uscio. Andare all’aperto non serve.
Stanotte
mi sono svegliato con una pizza di merda sullo stomaco; mi sono girato due o
tre volte, il sapore in bocca facevo schifo, mi sono reso conto di quanto male
si può fare ancora. È semplicemente spaventoso quanto ancora si potrebbe
sbagliare, sbagliare male. Quanto sciocco orgoglio ancora eroda da dentro,
selvaggiamente, i nostri tessuti. Cercando di smaltire l’immonda pizza, mi sono
detto che non devo essere un vendicatore. Che non dovrei. Che non dovrei essere
così attento ai dettagli e alle battaglie. Ma io non credo alla guerra: si
perde comunque. Le battaglie, invece, valgono sempre la pena. Restano. Resta il
senso della lotta. Resta il modo migliore per seminare codardi e scocciatori.
Ma il senso del male, che si annida, si sviluppa, imprigiona nelle paure e
nelle marce indietro, è una dolorosa ed irreversibile continuità con il
passato.
In ogni
casa, c’è almeno un armadio che conserva l’odore di una persona morta. Anche da
me. Da me c’è l’odore di mio padre che a sua volta emanava quell’odore perché
aveva osservato e respirato la morte. Ingiustamente.
Tutte le
frasi fatte che mi dissero ai funerali. Tutte stronzate. E io lo sapevo.
“Poi
starai meglio”
“Lo
porterai nel tuo cuore”
“Lui ti
osserva dall’alto, stanne certo”
Può anche
darsi. Chissà. Ma io sono ancora qui a difendere la fine di mio padre, a
custodirla, a dare un senso alla sua assenza. Dopo tanti anni non mi sono
piegato all’abitudine che gli altri, preoccupati, vogliono guardare nei tuoi
occhi per rassicurarsi. Io sono il guardiano, il cupo sorvegliante, della fine
di mio padre. Me lo porto dietro, nei gesti, nella somiglianza, nella devozione
che non accetta la pace della religione e del riposo eterno, me lo porto dietro
senza ammorbanti esaltazioni, senza farmi invasare dal bisogno di
rassegnazione. Sono silenzioso e custodisco. Non dimentico una virgola. Mi
muovo nel buio. Sono impegnato in battaglie cruente, non solidaristiche, non di
facciata, non di riconoscibilità progressista, sono battaglie ambigue, dure,
battaglie di fango, di calunnia, di rivolta e di brevi riposi tra le braccia di
chi non ha paura del diverso.
Non ho mai
chiuso gli occhi di fronte alla morte. Le assenze diventano ombre, le ombre
hanno bisogno anche di carezze, le carezze alle ombre sono il mio profumo e non
passerò il tempo che mi resta a scrivere cazzate sull’amore da prequel di
fotoromanzo. Le assenze sono vermi orrendi. Forse innocui. Ma non ci puoi mangiare
vicino. Non puoi guardarli prima di dormire. Non puoi tentare di sterminarli.
Sono le inique regole che ti sono state presentate come editto incontestabile.
Non ci sto. Non ci starò mai.
Stasera
non leggerò il vecchio libro di Bukowski che ho rispolverato. Penso che
toccherà a “Fame” di Hamsun per l’ennesima volta. E vorrei rileggere tanto “Niels
Lyhne” di Jens Peter Jacobsen, un capolavoro trascurato e mai più ristampato da
Iperborea. Agosto è il mese adatto per rileggere quel che ti è rimasto dentro.
L’estate scorsa mi feci una scorpacciata di Stig Dagerman, un’indigestione.
Perché Dagerman, come Hamsun, come Genet, come Celine, come McCarthy e la
maggior parte di Dostoevskij, fa male. Un male quasi fisico. Dove non ti porta,
ti trascina.
Ma non
tutti possono aver voglia di letture da ombrellone. Le letture da ombrellone
non esistono. E ancor meno esiste l’intelligenza da ombrellone, quella che ti
permetterebbe di commentare le nequizie della cronaca con sapido sarcasmo; è
tipico dei padri di famiglia che fingono di aver mantenuto una coscienza
critica e sono invece smarriti nella manutenzione finto sprezzante e malmostosa
del loro misero benessere.
Il
progressista dell’ombrellone accanto, figlio di padre sessantottino e
rincoglionito, cresciuto con valori mai applicati, con quella bonarietà
saputella e avvinazzata che puzza di codardia lontano chilometri.
Se questi
devono essere i miei vicini d’ombrellone immaginari, allora meglio l’anarchia
più distruttiva, quella da fumetto, quella da omicidio del buon senso.
Dagerman
era un acceso socialista, come lo sono stato io e forse ancora, mentre
Hamsun è stato pericolosamente ambiguo e
spostato a destra, ma entrambi hanno disperatamente lottato, e maldestramente
perso, con un mondo che chiede fattura corrispondente ad ogni azione che si
discosti solo leggermente dai canoni. Mondo ragioniere, mondo con le mutande
spesso lavate, ma anche magma di fogne ed acquitrini impiantati nel giardino di
casa.
Ero
stupido quando scrivevo per tentare di sedurre.
Molto,
molto stupido. Poi, anche se ci riuscivo, dovevo rinculare e ritirarmi, perché
non sembrava mai la conquista di un sogno, ma solo la circonvenzione di
necessità altrui.
“La
scrittura è una meravigliosa forma di seduzione”, sostengono molti
scribastronzi, sostenuti dal cugino editore e amici di famiglia del critico monorchide
del quotidiano, lo dicono e intanto si sagomano i peli del naso e del pube. I
loro sessi salsiccia sono degli spot fallimentari per imitazioni del Denim e
per donne mezze tacche ossessionate dal curriculum sventato della loro vagina. Quelle
che si pentono di tutto e fanno le mantidi in ritardo, sciocche, patetiche, in
preda alle canzoni. Inutile cercare di convincerle che non conta quante volte e
con chi si sono “lasciate andare”, che è la dignità quel che conta, la forza
interna, la certezza della propria esistenza e non le ingenue infamie di un
passato quasi obbligatorio per tutti.
Ritirerei
il mio sesso credulone da più della metà dei luoghi dove mi ha trascinato in un
passato malato per scelta e sbiadito per le tante albe rigeneratrici, ma non tanto
per questioni di pulizia ed opportunità quanto per ragioni di dignità della
persona.
Il curriculum
affettivo è una cosa astratta, impalpabile: eppure si continua a parlarne e
scriverne. Il più delle volte, regalando agli altri manoscritti e lettere pedanti,
pesanti, fuori asse.
Non sono
una lettura estiva. Se mai ci fossi riuscito, adesso starei a chiedervi qualche
mi piace sulla mia nuova creatura. Con l’estate ho litigato da bambino e non è
mai stato un imbarazzo perseverare in questa reciproca antipatia.
Non sono
una lettura estiva, mai sono stato un’avventura esotica, non lo avrei permesso,
come non ho permesso e non permetto di essere parte inconsapevole di progetti
di salvezza altrui.
A ognuno
il suo diavolo sull’uscio. Senza le dita tozze nella marmellata della morale.
LdP, 3
agosto 2014
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