Nel giardino dell'irrazionalista, il razionalista fa da scimmia. Nella camera da letto del razionalista, l'irrazionalista fa da incubo.
John Paul O'Shenna
Mio padre continua a chiedere dove ho messo quei mocassini bianchi che mi stanno tanto bene. Me lo chiede, seduto a lato della radio arancione, quella delle partite domenicali.
Io ho della sabbia in mano, balbetto, ripeto ossessivamente che i mocassini bianchi, i mocassini bianchi li ho dimenticati a casa di una donna e che non ricordo chi fosse e dove andare a ritrovarla.
E c'è mia madre, mia madre che scuote la testa mentre cucina e non approva che io abbia dimenticato i miei mocassini bianchi.
Io intanto penso che dopo la collina c'è la morte. La morte, profumata e con un sorriso di circostanza. Dietro la collina c'è la mia morte e non so altro.
E c'è il fiume Bradano, che esonderà nel mio stomaco e affogherà tutti i vermi che mi compongono e spesso mi rendono interessante.
E tutti quelli che urlavano, per anni: “Non devi più pronunciare la parola mamma!”
E tutti quelli che strepitavano, “impara ad amare le cose che non ti piacciono”.
Tutte le rose che diventavano pellicole di orrore e trasalimento.
E quel vecchio che si affacciava sopra di me, con la sua bocca di muco e bestemmie, quel vecchio che portava negli occhi una dose senza attesa di morte.
E ancora, quel tipo di solitudine interiore che non hai mai saputo spiegare se non amando, amando e sbagliando in continuazione, mancando ogni appuntamento possibile con la cosa giusta da dire e da fare, con un'impressione da confermare.
Mentre mio padre continua a chiedermi dei mocassini bianchi, io farfuglio, pieno di quei peccati che si continuano a definire storie di un uomo, e allo stesso tempo ricordo bene baci vestiti male e poco, cotolette al latte durante le malattie, l'obbligo degli addii, la sconnessa rettitudine dei fallimenti.
“Dove hai lasciato i mocassini bianchi? Dove li hai lasciati?”
E io quasi non rispondo più. E ricordo i temi a scuola, tutti i temi del ginnasio che finivano spesso in un elogio della fuga consentita, del suicidio come ampolla di ribellione e disincanto, e quelle facce di paura, e quelle maledette convocazioni di mia madre.
Il Diavolo fachiro, a testa in giù e innamorato di quel che non è stato.
I mocassini bianchi, ora tutti mi chiedono che fine abbiano mai fatto, saranno sporchi di sangue, il sangue degli incubi, ogni incubo è un piccolo eccidio dell'intelligenza.
Nella casa che non mi appartiene, la casa del mio sonno, c'è una stanza dove ho rinchiuso i morsi, le provocazioni, le appartenenze passeggere, una stanza in cui nessuno è stato mai fondamentale o insostituibile, compreso un funebre ricordo senza poesia.
Le parole dei preti sono disperse in cerimonie sgualcite, annodate ad agende d'aria. Le parole d'amore erano solo enfasi del momento, quella cecità d'ordinanza che miete promesse e menzogne a raggiera, tanto più deboli della grande sconfitta di un uomo.
Il Diavolo, elegante e dettagliato, ride dalle finestre dei lieti eventi, alita pregiudizi su culle che non sono bruciate solo per un mero caso, il Diavolo abbraccia con devota imbecillità il fanatismo di vivere e operare delle scelte che sembrino convinte.
“Dove hai messo i mocassini bianchi, ma come hai potuto dimenticarli?”
La voce di mio padre è severa e quasi irriconoscibile. Io sudo e muoio piano.
Ninfee d'odio regalate a ragazze che non mi avevano mai guardato sul serio.
Io sono il mio peggior incubo dalla culla, e non sono un parroco che scambi i ricordi per fede e la buona volontà per prontezza di sentimenti.
Eliminare. Morire. Liquidare. Ghiacciare. Amare. Tradire. Scacciare. Dimenticare.
Una cornice senza forma. Inadattabile all'inadattato. Morte di un commesso amante.
Il rispetto non è eterno, l'accorgimento è essere blasfemi, intingersi di ricordi adulterati, commissionati per il blu notte delle pareti e dei laconici numeri da circo della mente.
Morte in cento morsi. La serenità, la gran troia a cosce aperte e con la lingua che chiama, che chiama troppe idee di sopravvivenza e di piacere. La gran troia della casa accanto.
Dove sono i mocassini bianchi io non lo so e non voglio saperlo.
Ogni parola ha il parossistico effetto di una bellezza scampata, mi si chiede dove siano i mocassini e io sono sudato, puzzo di sudore di bambino, di piscio acido e di quella spensieratezze che mi davano come compito a casa.
Affacciate al mio stomaco, le streghe ridono e mi ricordano quanto mi siano state vicine nei momenti di bisogno. Il fallito corso delle lacrime è solo un terremoto di nuove chances, ora.
Ricordo indumenti puliti, l'odore dei primi anni, il fiele in provetta, le parole che arrivavano già fraintese a chi mi leggeva. L'amore, una rockstar in esilio.
Bisognerebbe entrare in tutti i templi costruiti sulle lacrime, brandire una lunga lama e distruggere, eliminare e zittire tutti i ricordi che un incubo può contenere, massacrare tutti i profeti e tutte le donne innamorate, firmare come un Diavolo d'occasione il gettone di presenza, sorridere cappello alla mano.
E solcare quel lago, quel lago di cui si è tanto scritto, con la radio accesa su tanti anni fa, senza far più caso alle notizie.
Annegando nel sole senza un nome. Mai più.
Luca De Pasquale, 30 gennaio 2012
per tutta l'enorme solitudine di cui non sappiamo parlare. E che ci raddoppia.
Io ho della sabbia in mano, balbetto, ripeto ossessivamente che i mocassini bianchi, i mocassini bianchi li ho dimenticati a casa di una donna e che non ricordo chi fosse e dove andare a ritrovarla.
E c'è mia madre, mia madre che scuote la testa mentre cucina e non approva che io abbia dimenticato i miei mocassini bianchi.
Io intanto penso che dopo la collina c'è la morte. La morte, profumata e con un sorriso di circostanza. Dietro la collina c'è la mia morte e non so altro.
E c'è il fiume Bradano, che esonderà nel mio stomaco e affogherà tutti i vermi che mi compongono e spesso mi rendono interessante.
E tutti quelli che urlavano, per anni: “Non devi più pronunciare la parola mamma!”
E tutti quelli che strepitavano, “impara ad amare le cose che non ti piacciono”.
Tutte le rose che diventavano pellicole di orrore e trasalimento.
E quel vecchio che si affacciava sopra di me, con la sua bocca di muco e bestemmie, quel vecchio che portava negli occhi una dose senza attesa di morte.
E ancora, quel tipo di solitudine interiore che non hai mai saputo spiegare se non amando, amando e sbagliando in continuazione, mancando ogni appuntamento possibile con la cosa giusta da dire e da fare, con un'impressione da confermare.
Mentre mio padre continua a chiedermi dei mocassini bianchi, io farfuglio, pieno di quei peccati che si continuano a definire storie di un uomo, e allo stesso tempo ricordo bene baci vestiti male e poco, cotolette al latte durante le malattie, l'obbligo degli addii, la sconnessa rettitudine dei fallimenti.
“Dove hai lasciato i mocassini bianchi? Dove li hai lasciati?”
E io quasi non rispondo più. E ricordo i temi a scuola, tutti i temi del ginnasio che finivano spesso in un elogio della fuga consentita, del suicidio come ampolla di ribellione e disincanto, e quelle facce di paura, e quelle maledette convocazioni di mia madre.
Il Diavolo fachiro, a testa in giù e innamorato di quel che non è stato.
I mocassini bianchi, ora tutti mi chiedono che fine abbiano mai fatto, saranno sporchi di sangue, il sangue degli incubi, ogni incubo è un piccolo eccidio dell'intelligenza.
Nella casa che non mi appartiene, la casa del mio sonno, c'è una stanza dove ho rinchiuso i morsi, le provocazioni, le appartenenze passeggere, una stanza in cui nessuno è stato mai fondamentale o insostituibile, compreso un funebre ricordo senza poesia.
Le parole dei preti sono disperse in cerimonie sgualcite, annodate ad agende d'aria. Le parole d'amore erano solo enfasi del momento, quella cecità d'ordinanza che miete promesse e menzogne a raggiera, tanto più deboli della grande sconfitta di un uomo.
Il Diavolo, elegante e dettagliato, ride dalle finestre dei lieti eventi, alita pregiudizi su culle che non sono bruciate solo per un mero caso, il Diavolo abbraccia con devota imbecillità il fanatismo di vivere e operare delle scelte che sembrino convinte.
“Dove hai messo i mocassini bianchi, ma come hai potuto dimenticarli?”
La voce di mio padre è severa e quasi irriconoscibile. Io sudo e muoio piano.
Ninfee d'odio regalate a ragazze che non mi avevano mai guardato sul serio.
Io sono il mio peggior incubo dalla culla, e non sono un parroco che scambi i ricordi per fede e la buona volontà per prontezza di sentimenti.
Eliminare. Morire. Liquidare. Ghiacciare. Amare. Tradire. Scacciare. Dimenticare.
Una cornice senza forma. Inadattabile all'inadattato. Morte di un commesso amante.
Il rispetto non è eterno, l'accorgimento è essere blasfemi, intingersi di ricordi adulterati, commissionati per il blu notte delle pareti e dei laconici numeri da circo della mente.
Morte in cento morsi. La serenità, la gran troia a cosce aperte e con la lingua che chiama, che chiama troppe idee di sopravvivenza e di piacere. La gran troia della casa accanto.
Dove sono i mocassini bianchi io non lo so e non voglio saperlo.
Ogni parola ha il parossistico effetto di una bellezza scampata, mi si chiede dove siano i mocassini e io sono sudato, puzzo di sudore di bambino, di piscio acido e di quella spensieratezze che mi davano come compito a casa.
Affacciate al mio stomaco, le streghe ridono e mi ricordano quanto mi siano state vicine nei momenti di bisogno. Il fallito corso delle lacrime è solo un terremoto di nuove chances, ora.
Ricordo indumenti puliti, l'odore dei primi anni, il fiele in provetta, le parole che arrivavano già fraintese a chi mi leggeva. L'amore, una rockstar in esilio.
Bisognerebbe entrare in tutti i templi costruiti sulle lacrime, brandire una lunga lama e distruggere, eliminare e zittire tutti i ricordi che un incubo può contenere, massacrare tutti i profeti e tutte le donne innamorate, firmare come un Diavolo d'occasione il gettone di presenza, sorridere cappello alla mano.
E solcare quel lago, quel lago di cui si è tanto scritto, con la radio accesa su tanti anni fa, senza far più caso alle notizie.
Annegando nel sole senza un nome. Mai più.
Luca De Pasquale, 30 gennaio 2012
per tutta l'enorme solitudine di cui non sappiamo parlare. E che ci raddoppia.